Con il suo permesso, ho tradotto questo post di Ron Edwards su Adept Play. A mio parere è rilevante a molti discorsi che stiamo facendo in questo forum, e mi sono dedicato per rendere l’italiano il più facilmente comprensibile possibile. La scrittura di Ron è molto idiomatica e richiede molto tempo trovare perifrasi che funzionano – spero di aver fatto bene il lavoro e vi invito a confrontare con l’originale e partecipare alla discussione in inglese se ne siete capaci.
“Autorità”. Da quando ho articolato il concetto per la prima volta nel 2004, c’è chi si è sfasciato su questa parola. Non c’è da sorprendersi: chiunque si definisca “l’autorità” si dichiara apertamente e non ironicamente uno stronzo che esercita una forza arbitraria. Siamo tutti cresciuti con le frasi alla moda “metti in discussione l’autorità”, “vaffanculo l’autorità” e i meme di “rispetta la mia autorità”:. Applicato al gioco di ruolo, il diffuso non-gioco fondato su “lo decide il GM” determina un’associazione istantanea con il voler prescrivere l’interpretazione e l’applicazione di quello che dicono gli altri, includendo l’approvare ciascun loro contributo, e il decidere se gli esiti siano efficaci e in qual misura.
Per il giocatore di ruolo intrappolato in strane lotte per il potere sullo svolgimento del gioco e su chi “deve” accettare le cose e farsele piacere, l’autorità non può che significare nient’altro che il pugno di ferro, e l’unica domanda è se indossi o meno il guanto di velluto.
Così, quando parlo di “distribuzione delle autorità”, abbondano le immagini di persone che si sottomettono umilmente a ciò che gli viene ordinato, o che si spintonano l’un l’altro per vedere quale autorità (per come concepiscono la parola) soppianterà quella di qualcun altro. So perché nessuno usa il termine o vi fa riferimento, relegandolo alle “cose da Ron” che non sono importanti o forse imbarazzano. So perché i pochissimi che lo usano lo fanno per poco dopo invocare un’altra parola.
C’è solo un problema. È la parola giusta.
Con Autorità intendo quando una persona afferma qualcosa su qualcos’altro di presente in gioco, che a questo punto si può considerare un fatto noto sulla base del quale gli altri possono agire. Robbie ha detto, durante una lezione di “People and Play”, che ha perfettamente senso parlare di autorità in gioco, in contrapposizione all’autorità su altre persone. Ho prestato attenzione a questo particolare durante la successiva edizione del corso e ho scoperto alcune cose molto interessanti e rilevanti.
La prima è la sequenza logica/connessione tra questi punti.
- Il mezzo dell’ascolto, cioè la reincorporazione[1],
- quindi la necessità di sapere quali cose, tra tutte quelle che ascoltiamo, siano utilizzabili,
- per cui il bisogno di sapere come ciò possa avvenire mentre si gioca, cioè come o quando una data cosa venga resa utilizzabile, il che implica anche un “chi”.
Questo significa “avere l’autorità” – per quella cosa lì, è come se si premesse un interruttore o un segnale in maniera che da ora in poi, quella cosa è quella[2]. Autore-ità, direttamente correlata alla paternità autoriale[3] nel significato più puro di questo termine: una cosa non era nota o definita, e ora lo è. È meglio intenderla in termini di persone reali che si affidano l’una all’altra per farlo.
Il che ci porta al secondo punto: il gioco non può avvenire se non si intersecano almeno due autorità.
- Quando qualcosa sul quale hai “premuto l’interruttore” diventa utilizzabile per qualcun altro, e lui ti “risponde” – in parole povere, “il goblin corre verso di te per infilzarti con la lancia” + “io gli sparo le frecce con l’arco!”.
- Ma questo è un esempio ovvio – pensate invece a quando vengono introdotte delle cose che non prendono realmente “vita” fino a quando un certo numero di esse non sono al loro posto, spesso messe lì senza la consapevolezza di come avrebbero potuto essere rilevanti.
- Bisogna più spesso del contrario applicare una certa morbidezza e fare domande, cioè non si può “premere l’interruttore” sul nulla e quindi bisogna informarsi su molte cose, spesso facendo domande, prima di farlo.
Ed ecco il terzo punto per concludere, che è legato al fatto sgradevole che non faccio didattica su aspetti di quasivoglia cosa qualcuno possa fare intorno a un tavolo di gioco di ruolo di cui si presume l’esistenza ma che non sta effettivamente giocando.
- L’autorità non riguarda chi inventa qualcosa o quando questo accade.
- L’autorità non riguarda lo scavalcare tutti gli altri quando una particolare cosa accade al momento della risoluzione e degli esiti.
Il fraintendimento o la violazione di questi due punti sono i risultati tossici del non-gioco. In particolare, essere soggetti a una persona che scavalca o sostanzialmente invalida l’autorità di chiunque altro, arbitrando “ciò che entra” e “ciò che esce”. È irrilevante se si tratti di una persona sola o di un gruppo di persone.
È questo che consegue dal pensare che stiamo parlando di autorità sulle persone.
Spero davvero di poter ottenere la vostra comprensione e il vostro sostegno per un maggiore dialogo e un’applicazione accurata, in quel dialogo pubblico, riguardo le autorità (plurali) in gioco.
Dalla discussione relativa alla prima presentazione di questo punto su Patreon:
Jesse: Sì, è difficile. Poche ore dopo aver letto questo articolo ho visto qualcuno parlare di “GM autoritari”. Fortunatamente, non stava insinuando che tutti i GM fossero autoritari. Allo stesso modo, ho visto un altro post che parlava di come il metagaming sia una porta che conduce alla narrazione collaborativa e che i GM che lo reprimono hanno paura di veder rovesciato il loro potere.
Perciò, è difficile separare il semplice concetto di autorità dal comportamento autoritario. Anche l’attuale clima politico negli Stati Uniti e altrove non aiuta.
È davvero ovvio che la prima volta che parlo di autorità in questo contesto tutti saltano immediatamente al “quindi, tutti gli altri stanno zitti e accettano”. E si risponde immediatamente con una reazione di “collaborazione”, “consenso” e “consensualità”. Poi faccio un respiro profondo e spiego, e se sono fortunato la situazione si calma: “Ok, sì, capisco, ma amico, hai bisogno di un’altra parola”.
Non so quanto sia utile (probabilmente non lo è), ma ho sperimentato l’espressione “diritto di precedenza” perché, per qualche motivo, porta con sé l’idea di controllare l’ambiente circostante e il concetto di “cedere la strada” se si vuole. Preferirei usare solo il linguaggio delle autorità, ma dipende se ho o meno l’energia per passare attraverso la fase “Oh, quindi sei Hitler del gioco di ruolo” della discussione.
Helma: questa reazione di non ascoltare come descrivi le autorità prima di accusarti di promuovere un comportamento autoritario è probabilmente il cuore del problema. Non capisco davvero cosa stia succedendo. Non credo che sia solo perché traduco tutto quello che diciamo – e non traduco autorità nelle nostre discussioni con il tedesco Herrschaft (il mio dizionario online dà almeno 30 opzioni, tra le quali mi piace di più Handlungsvollmacht).
Nel caso dell’uso di termini di uso comune, attribuiamo significati specifici (autorità non è l’unico, si pensi a IIEE, bounce …) So che noi (tu) abbiamo sviluppato una nomenclatura che funziona per noi e per il nostro argomento, così come le nomenclature utilizzate per altri argomenti possono utilizzare parole di uso comune e dare loro significati specifici e “insoliti”.
Forse potete evitare la fase di rifiuto spiegando prima di cosa state parlando e poi aggiungendo "è così che io/noi/Ron chiamiamo le autorità? Di solito ho difficoltà anche solo a spiegare queste cose - semplicemente non sono brava a parlare in modo teorico, sono arrivata ad accettare il fatto che di solito vivo la mia vita e prendo le mie decisioni d’istinto, il che mi rende una pessima “insegnante” ed è frustrante a modo suo.
Io: L’unica soluzione, a mio avviso – al di là del requisito necessario per stabilire una buona discussione in primo luogo – è lavorare a partire dal contenuto immaginato verso l’esterno. Se X è nel retroscena, o nella situazione attuale, o stabilito attraverso un esito, o inserito come risultato di un esito… allora come ci è arrivato?
Allora il lavoro consiste nel riconoscere che tutti i discorsi sulle regole, ad esempio: il tavolo mi ha detto cosa succede, i dadi mi hanno detto cosa succede, il testo dello scenario mi ha detto cos’è, le regole di risoluzione mi hanno detto di inventare, i miei appunti di preparazione mi hanno detto cos’è, sono subroutine del principio che “devo dirlo e farmi sentire, e tutti gli altri fanno affidamento su di me e su nessun altro (in questo momento) per dirlo”. Da qui si possono sollevare le questioni sostanziali, prima fra tutte l’argomento del post: superare l’errore di base che “dire” sia una sorta di status magico per inventare tutto e affermare ciò che accade senza vincoli. [Questo è importantissimo! È il motivo per cui si pensa che il gioco di ruolo consista nel sedersi e cinguettare quando si viene chiamati in causa].
Gli argomenti da trattare – e impenetrabili fino a quel momento – includono:
- La non-soluzione di fare a turno lo pseudo-dittatore, che per qualche ragione è spesso percepita come una soluzione all’avere uno pseudo-dittatore fisso.
- L’applicazione morbida/interrogativa dell’autorità, cioè non significa “re per un giorno”.
- L’ovvio punto di vista che si applicano regole diverse (“chi e come”) per i quattro diversi tipi, anche quando i contenuti sono spesso combinati in un’unica entità o evento durante il gioco.
- Il punto altrettanto ovvio che le autorità, per definizione, non possono entrare in conflitto tra loro e che qualsiasi evento in gioco richiede un input da parte di più di una autorità.