Il GDR è vulnerabilità---intervista sulla sicurezza in gioco

Ho fatto un’intervista con @Bille_Boo per il suo speciale sulla sicurezza che pubblicherà a breve. È scritta nella sua voce, che parafrasa una conversazione che abbiamo avuto a voce. Il contesto citato è un’intervista a Ron Edwards che Lorenzo pubblicherà separatamente. Quell’intervista chiarisce il significato per Ron di Linee e Veli, che hanno assunto un significato diverso nell’uso comune—in questa intervista il risultato di quella conversazione è dato per scontato.

Penso che questa possa fornire come continuazione della conversazione che abbiamo fatto in questo thread:

Safety e X-Card: perché è evitata in Italia? - Giochi e giocare - La Locanda dei GDR

Trovate una versione più vecchia delle opinioni espresse da me qua sotto in questo e in questo thread di The Gauntlet.

Da questo momento inizia la voce di @Bille_Boo. Le sue domande sono in grassetto, mentre le sue trascrizioni delle mie risposte date a voce sono in testo normale.


Il GDR è vulnerabilità

“Ancora lui?! Ma non lo avevi già intervistato per lo speciale numero 3?” – direte voi. In effetti cerco sempre di dare la precedenza, anche per mera curiosità, a persone che non ho mai intervistato prima. Ranocchio però mi è stato di grande aiuto, non solo nell’organizzare la chiacchierata con Edwards (alla quale è stato così gentile da partecipare come facilitatore, essendo bilingue), ma soprattutto nell’aiutarmi a raggiungere, prima, la necessaria comprensione di certi concetti e di certa terminologia.

Per una presentazione completa della sua persona rimando a quanto ho scritto un paio d’anni fa, aggiungendo solo che da allora ha aperto anche un blog e (notizia freschissima) il nuovo forum internazionale Wynwerod, oltre ad aver organizzato la sua prima FroggyCon.

Sul tema delle meccaniche di sicurezza Ranocchio ha una posizione forte e, a quanto ho potuto vedere, di minoranza, quindi dargli voce è utile a rendere questa trattazione più completa.

Quando ti sei imbattuto per le prime volte nel concetto di meccanica di sicurezza?

Probabilmente quando la X-Card è diventata popolare. Dico questo semplicemente perché non considero lines and veils (che usavo già da tempo) come meccaniche di sicurezza: non sono una meccanica, bensì del vocabolario per parlare e gestire bene le cose; non ti prescrivono una procedura.

Se ricordi, Ron ha fatto l’esempio di un giocatore che diceva “possiamo non guardare?”, equivalente a “possiamo stendere un velo?”. Insomma, sono anche cose abbastanza intuitive: al di là della terminologia, ci sono cose che non vogliamo che succedano, e cose che vogliamo evitare di descrivere.

La X-Card, invece, mi ha stimolato immediatamente ricordi di brutte esperienze. Quando è interpretata al meglio la considero goffa, quando è interpretata al peggio attivamente tossica.

Proviamo a elaborare un po’.

Secondo me non si può parlare di sicurezza al tavolo se non si ha prima ben chiaro il concetto delle autorità di gioco. Ne ho parlato in una puntata del podcast di Daniele di Rubbo. Ron lo ha appena accennato (con l’esempio della penna) perché non c’era tempo, penso.

Per riassumere, abbiamo dei ruoli specifici al tavolo, specialmente per quanto riguarda l’introdurre certi dettagli nello spazio immaginato condiviso (o comunque lo vogliamo chiamare).

Le autorità sono sempre vincolate da quello che è stato detto prima, ovviamente, altrimenti non ci stiamo ascoltando. Possono essere vincolate anche da altro, per esempio regole, tiri di dado eccetera.

E sono sempre plurali. Non c’è un’unica autorità, che può essere concentrata o divisa tra le persone: perché il gioco proceda ci vogliono autorità multiple e diverse. In questo modo possono interagire, e generare cose nuove, senza bisogno che contrattiamo o che qualcuno guidi gli altri verso una storia soddisfacente.

Che cosa c’entra questo concetto con la sicurezza?

Se non abbiamo chiara questa cosa, il nostro gioco diventa affidato all’autorità sociale (una cosa ben diversa); il che, a mio parere, è una degenerazione. In pratica quello che succede non emerge giocando, ma lo decidiamo in base ai nostri rapporti sociali.

A quel punto, quando viene introdotto qualcosa che è potenzialmente offensivo per qualcuno, è difficile capire da dove è arrivato. I nostri ruoli non sono chiari. O abbiamo una persona (un GM) che fa da filtro centrale a tutto, e quindi diventa iper-responsabile anche del benessere del tavolo, oppure stiamo facendo uno strano gioco di potere tra di noi, dove i nostri rapporti sociali influenzano chi può dire cosa, e tutte le cose che possono offendere qualcuno vengono automaticamente portate al livello di rapporto tra persone.

Torniamo alla X-Card…

Bisogna distinguere. Un conto è se la vediamo come una vera e propria meccanica del gioco: lo modifichiamo aggiungendo una regola per cui ognuno ha diritto di veto universale su quello che fanno gli altri. Un altro conto è se azionarla vuol dire: “okay, ora smettiamo di giocare e ci occupiamo di questo problema”. La prima cosa va a snaturare il gioco, la seconda è solo un modo di far partire un dialogo (poi può essere che non sia il modo migliore).

In psicologia c’è un concetto che si chiama “triangolo vittima-persecutore-salvatore”. È un fenomeno sociale per cui c’è una persona offesa da difendere, un’altra che è vista come l’aggressore, una terza si mette in mezzo per salvare la prima, e si crea una spirale negativa in cui nessuno agisce davvero in funzione del benessere del gruppo; in modo ciclico i soggetti si scambiano di ruolo e continuano a perpetuare lo schema. Se permettiamo che dentro il gioco si instauri questo tipo di dinamica non stiamo più giocando insieme.

Non mi piace l’approccio per cui diciamo che c’è una persona offesa che deve avere la priorità su tutti quanti. Secondo me, se siamo in un ambiente in cui c’è fiducia reciproca e presupponiamo la buona fede altrui, quando c’è un’incomprensione va risolta con un dialogo tra le due parti.

Essere creativi è complesso e si accompagna a una forma di vulnerabilità molto forte. Quando portiamo i nostri contributi al gioco ci esponiamo. Nel momento in cui dici a un altro che il suo contributo ti ha fatto male, a tua volta stai facendo male a lui, che in quel contributo ha messo una parte di sé. Solo attraverso il dialogo e la mutua comprensione si può risanare il gruppo e tornare a giocare.

Nella descrizione della X-Card c’è scritto che la persona che la tocca non deve neanche chiarire quale contenuto le ha dato fastidio. Secondo me è uno strumento che aumenta la probabilità che il gruppo si rompa, non la diminuisce. E non penso che protegga le persone. Poi, certo, non tutti la usano così: se diventa un modo come un altro per dire “fermiamoci e parliamone”, allora non è diverso dai tanti altri strumenti per fare questa stessa cosa. Però l’aspettativa culturale che la X-Card porta con sé è quella di considerarla una vera regola di gioco che dà un effettivo veto.

Se dico che una cosa mi dà fastidio, anche senza X-Card, non sto tecnicamente mettendo un veto?

No. Io imposterei la cosa da un punto di vista di responsabilità: tu non puoi porre il veto su quello che dico io, ma io sono responsabile di quello che dico. Mantengo le mie autorità sul gioco, ma ho la responsabilità di come le uso.

Può capitare che tu mi dica: “quella cosa non mi piace, cambiamola”, però stiamo uscendo dalle meccaniche del gioco. Il tuo commento mi dà un riscontro su come sto usando le mie responsabilità. In un gruppo sano è normale commentare quello che fanno gli altri, dire cosa ci piace e cosa no.

Se invece guardiamo oltre la X-Card, il discorso rimane lo stesso? È l’intero insieme delle meccaniche di sicurezza a non convincerti?

Ci tengo a dire che se parliamo di “meccaniche”, cioè di vere e proprie regole del gioco, dobbiamo fare attenzione a come interagiscono con le altre. Molte presumono che il gioco funzioni in un certo modo: non possiamo pensare di installarle su un gioco qualunque senza rischiare di stravolgerlo.

In Fantasy World c’è una regola che in apparenza potrebbe ricordare una X-Card, ma con cui mi trovo d’accordo. Dice che, nel momento in cui narri l’esito di qualcosa, quello che narri deve piacere a tutti. Quindi è un veto esplicito, ma limitato alla narrazione: non puoi cambiare che cosa succede, ma solo come lo descrivi. Funziona in Fantasy World perché l’autorità di narrazione degli esiti (che è uno dei tanti tipi di autorità, ne ho parlato meglio del podcast) non è assegnata in modo rigido.

In Trollbabe, dove chi narra l’esito del conflitto è una regola importante, dare a qualcuno un diritto di veto non potrebbe funzionare, cambierebbe tutto.

C’è un’altra cosa che voglio far notare: molte volte le meccaniche di sicurezza come la X-Card vengono portate al tavolo non per l’effettiva volontà di proteggere le persone, ma come forma di identificazione in una comunità.

Una sorta di passaporto per far vedere che sei una brava persona?

Esatto: perché se non le usi sei una persona tossica. Per non parlare di quando le critichi in modo argomentato, come ho fatto io: molti reagiscono mettendosi sulla difensiva.

Mi è capitato, in un contesto internazionale, di fare una critica alla definizione anticipata delle linee e dei veli, e sono stato immediatamente aggredito. Mi ero limitato a dire: “guardate che fatto così non funziona”, e mi è stato risposto: “eh, se non funziona per te stai zitto, perché serve a tante altre persone e stai minimizzando i loro bisogni!”.

È un’esperienza aneddotica. Però, visto che molti sostengono che il solo parlare di meccaniche di sicurezza aiuti il dialogo… a me sembra che si stia instaurando un tipo di dialogo non costruttivo.

Tu come gestisci contenuti problematici o situazioni problematiche al tuo tavolo?

Penso di aver raggiunto un punto in cui mi trovo molto a mio agio nell’uso attivo delle linee e dei veli, e anche nell’aiutare gli altri in questo. Sono abilità molto più precise e sottili rispetto a schiaffare la X-Card sul tavolo.

Per esempio, quando gioco con persone che non conosco non descrivo mai scene di sesso: le velo. Ora, non è che all’inizio, quando ci sediamo, faccio tutto un discorsetto: “ragazzi, qui usiamo le linee e i veli, le linee significano questo, i veli significano quest’altro…”. Non ce n’è bisogno. Semplicemente, quando arrivo a descrivere quella cosa faccio uno stacco, un cambio di scena. Tutti sanno cos’è successo ma non si è visto. Come succederebbe in un film.

Non voglio dire che parlarne è sbagliato. Ma, siccome giochiamo con delle persone, abbiamo il compito di imparare sia a rendere visibili le proprie sensibilità, sia a notare quelle degli altri. È chiaro che possiamo fallire in questo: a quel punto, semplicemente, bisogna parlarne e conoscersi meglio.

Ti va di fare qualche esempio concreto?

In una giocata a Cy_Borg, una giocatrice si era presa con un PNG. C’è stata proprio una sotto-trama romantica, che si è svolta in modo prevalentemente velato, sia perché non era quello l’oggetto del gioco, sia perché al tavolo c’erano persone che non conoscevo, anche molto giovani.

Un caso in cui sono stato io a esprimere personalmente un mio disagio è stato durante una giocata a Fantasy World con Alessandro Piroddi, durante le fasi di playtest. Interpretavo il libretto [la “classe”, più o meno – NdR] del Prete. La premessa della storia era che noi andavamo in giro con una comunità che ci seguiva su una barca, e io ne ero il sacerdote. In quel periodo ero in trattamento da uno psicologo perché soffrivo di depressione. Ebbene, è nata una scena in cui il mio PG si è trovato a confortare un PNG, in un modo che ricordava molto la terapia. La cosa mi ha messo veramente a disagio.

Qualcuno lo chiamerebbe “bleeding”.

Sì, di brutto! Ho fermato un momento il gioco, dicendo: “ragazzi, sono un attimo a disagio, lasciatemi il tempo di capire perché”. Ma volevo continuare a giocare la scena. Cancellarla o troncarla a metà può essere molto peggio, in casi come questo, perché la persona ferita sente di aver rovinato il gioco agli altri. Quindi abbiamo proseguito applicando un velo molto sottile. Io sono passato a parlare in terza persona, e abbiamo riassunto alcuni passaggi con il discorso indiretto. È una tecnica che consiglierei a molti.

Altro esempio. Stavamo giocando a Trollbabe alla FroggyCon (così dimostriamo che anche in una convention non serve la X-Card). C’era una persona con cui avevo interagito in Rete ma con cui non avevo mai giocato. Era aracnofobica, e non lo sapevamo. A un certo punto, come risultato di qualche tiro, mi ero messo a descrivere che c’erano dei ragni, e ho visto che faceva una faccia strana. “Che problema c’è?” ho chiesto. “Eh, i ragni non mi piacciono” ha risposto. E io li ho sostituiti con un’altra cosa, non ricordo nemmeno cosa. Anche lì, non è che una regola mi ha obbligato: mi sono preso la responsabilità di cosa stavo dicendo. Si è risolto tutto in un attimo. Se ci fosse stata la X-Card e quella persona l’avesse toccata non avrei saputo cosa fare.

Il fatto è che a volte non è facile entrare in quello stato di fiducia reciproca di cui parlavi, anche quando magari siamo convinti di esserci. A me è capitato di avere un giocatore aracnofobico, ma l’ho scoperto dopo che la scena coi ragni era finita, sul momento non me l’ha mica detto.

Ci sta anche non dirlo subito, se uno non se la sente.

Questo non era un caso grave, però si parla molto della peer pressure e cose del genere. C’è l’idea che, se alle persone non dai uno strumento esplicito (e magari “giocoso”) da usare, non se la sentiranno di dire che sono a disagio.

Io ho notato che quando c’è una comprensione vera delle autorità di gioco diventa naturale commentare tutto, conversare liberamente durante il gioco. Non c’è bisogno di turni di parola rigidi: ci sentiamo liberi di parlare quando vogliamo, tanto è chiaro chi deve decidere cosa. In questo contesto viene molto più semplice anche segnalare che una cosa ti dà fastidio.

Secondo me, se non si riesce a instaurare al tavolo questo stato di fiducia, non si dovrebbe proprio giocare. Fare un’attività creativa come questa richiede di renderci vulnerabili gli uni agli altri. Ogni prodotto creativo è legato in modo intimo all’espressione del sé. Per questo il GDR, secondo me, è un’attività fondamentalmente rischiosa (ma non più rischiosa di innamorarsi o di andare a suonare con un gruppo o andare a una festa con tante persone), e voler rimuovere ogni forma di rischio alla fine diventa un rifiuto dell’attività stessa.

Ci sono persone, amici, di cui ho scoperto dei lati anche molto oscuri giocando di ruolo. Va bene così, non li giudico. Per essere davvero creativo non puoi mascherare quello che sei. Quindi c’è una responsabilità in due sensi: devi prenderti la responsabilità di quello che dici, ma gli altri devono prendersi la responsabilità di non giudicarti per quello che dici.

A Stonewall 1969 ci hai mai giocato?

Non ancora, proprio per mancanza del contesto sociale adeguato. L’ho letto e l’ho apprezzato, ma me la sentirei di giocarlo solo con Stefano (Burchi, l’autore) o con persone di cui mi fido.

Contiene delle meccaniche di sicurezza formali vere e proprie.

Sì, e non ho nulla in contrario, proprio perché Stefano è una persona informata che ci ha pensato e ha fatto delle cose integrate, in modo intelligente, nel resto del gioco. Esattamente come ha fatto Piroddi con Fantasy World. Non sono toppe esterne applicate sopra in maniera acritica.

Hai qualche esempio, allora, in cui hai giocato a un tavolo che aveva meccaniche di sicurezza formali, e qualcosa non ha funzionato?

Di recente mi sono trovato a giocare una sessione che è andata molto male. A un certo punto non mi sentivo a mio agio. Senza entrare nei dettagli, diciamo pure che il GM railroadava (l’ha anche ammesso).

Ho chiesto, molto chiaramente, di mettere in pausa per parlarne. Un giocatore all’inizio mi ha ignorato e ha continuato a parlare in-character, finché non ho insistito. Considerate che quel giocatore è uno che parla sempre di meccaniche di sicurezza e in particolare di open door policy.

Dopodiché, le cose non sono migliorate e ho deciso di andarmene. Ho spiegato che lasciavo la partita perché mi sentivo a disagio con quel modo di giocare. E quello stesso giocatore si è messo a darmi contro, dicendo che “avevo offeso” il GM, e che la open door policy sarebbe andata bene solo se mi fossi allontanato in silenzio senza dire nulla.

Per me la possibilità di mettere in pausa, o lasciare il tavolo se si sta male, è una cosa così elementare che non c’è nemmeno bisogno di dirla.

Ho l’impressione che a volte questa ossessione che si debbano avere meccaniche “di sicurezza” contro certi comportamenti sia una proiezione: te li aspetti dagli altri perché inconsciamente sai che li hai tu. Questa è un’altra dinamica nota in psicologia.

Ultimo argomento: Dichiarazione di Intenti! (Di solito lo chiedo per primo ma con te ho fatto il giro inverso.)

Allora… è complesso. Penso che, fino a un certo punto, parlare di cosa si vuole fare non sia un problema. Ho visto che prevede di specificare anche degli obiettivi estetici a cui tendere, e non solo temi da evitare…

Sì… in realtà, la parte sui temi da evitare è davvero minuscola. Il grosso del testo, a mio avviso, è una formalizzazione di quella che un tempo si usava chiamare “sessione zero”.

Stavo per dirlo! Per me sono quasi la stessa cosa. E ho dei problemi anche con il concetto di sessione zero.

Se devo giocare con persone che non conosco magari me la faccio una birra con loro, prima, per capire che tipi sono, per capire se voglio “suonarci insieme”. E c’è una certa quantità di discussione pre-sessione che può essere utile.

In generale, però, la sessione zero è una cosa appiccicata davanti a giochi che non prevedono, di per sé, delle meccaniche efficaci per iniziare una campagna. Il problema è che dedicando a questo un’intera sessione, o un intero documento scritto, c’è il forte rischio di fare front-loading: anticipare troppo; stabilire in anticipo cose che dovresti scoprire durante il gioco. Lo vedo fare molto spesso.

Per esempio: c’è davvero bisogno di dire prima se vogliamo il tono rocambolesco o il tono cupo? Tanto, ogni volta che abbiamo premesso una cosa del genere a un tavolo, poi ci siamo trovati a fare diversamente da come avevamo detto.

Ho visto persone discutere in sessione zero proprio di archi narrativi, di come vogliono veder risolvere certe cose. Quello è la morte del gioco. La Dichiarazione di Intenti non lo fa in maniera esplicita, però secondo me crea un contesto che lo favorisce.

La cosa importante, secondo me, non è “dichiarare i nostri intenti”, ma imparare insieme a creare delle situazioni giocabili: situazioni chiare, risolvibili, dove si possono fare delle scelte, e che abbiano una risonanza con tutte le persone al tavolo. È un’abilità fondamentale non solo all’inizio, ma anche durante lo svolgimento. Come lo facciamo può variare molto da gruppo a gruppo e da gioco a gioco.

11 apprezzamenti

Questa intervista mi ha fatto venire in mente due cose:

  • la prima è perché non ho mai sopportato le X-Card: la mancanza di dialogo
  • la seconda è il problema del disagio.

In un GdR bisogna mettersi molto più in gioco che in altri giochi: un aracnofobo (per rimanere nell’esempio) non avrà mai problemi a giocare a calcio od a monopoly mentre potrebbe averli giocando ad un GdR! Quindi potrebbe sentirsi a disagio ed è qui tutto il problema:
quando io andavo a scuola, era un grosso problema rivelare i propri disagi; se fosse stato aracnofobo e lo avessero scoperto, mi sarei ritrovato il banco pieno di ragni, così come la cartella, i capelli, la maglietta, tutto! E se ti lamentavi, il numero di ragni aumentava! E la colpa è la tua! Non di chi ti fa queste cose! Quindi sono cresciuto in un clima dove il tuo disagio doveva rimanere nascosto od erano guai. Ma se io rischio di sentirmi a disagio giocando, molto probabilmente non giocherò oppure le cose andranno velocemente a carte e quarantotto (come si dice dalle mie parti). Leggendo di tutti questi “strumenti di sicurezza” il cui scopo è dichiarare un disagio senza mai esplicitarlo, mi dà tanto l’impressione che ancora oggi sia così: esprimere una tua debolezza, significa essere reso martire…

Ciao :slight_smile:

2 apprezzamenti

Voglio aggiungere una cosa: la sessione zero. Io ormai la sto appiccicando a tutti i giochi perché ha il vantaggio di stabilire a “cosa si gioca”. Un gioco di fantascienza (per non fare il solito esempio del fantasy) potrebbe attirare quelli che a cui piace Star Trek, quelli a cui piace Star Wars, quelli a cui piace Blade Runner e quelli a cui piace Alien (e molti altri). Se li metti insieme al tavolo e si inizia a giocare, il gioco si risolverà in breve in un disastro. Mettere in chiaro gli intenti, eviterà problemi simili, visto che si parla delle aspettative del gioco.
Certo, nella sessione zero di solito si parla anche di altre cose e, sì, come dice Ranocchio, a volte si esagera e si stabiliscono un po’ troppo le cose. Ma in generale mi trovo meglio con la sessione zero che senza.

Se poi giochi online, la sessione zero è quasi obbligatoria per capire a cosa si sta giocando realmente.

Ciao :slight_smile:

1 apprezzamento

Per completezza, questa è la stessa intervista uscita sul blog, preceduta da quella (in due parti) a Ron Edwards a cui @ranocchio fa riferimento all’inizio.

3 apprezzamenti

Voglio ringraziarti per la tua opera sul blog a riguardo di questi temi.

Ho letto tutto quello che hai scritto sul blog e lo trovo un ottimo, ottimo, ottimo servizio, qualunque cosa si pensi di questa roba.

In particolare trovo che le posizioni di Ron siano, come spesso accade, ragionevoli e avanzate allo stesso tempo.

Spesso mi sono chiesto perchè gli stessi strumenti non venissero pensati e quindi usati per problemi di gioco (almeno soggettivamente percepiti come tali) diversi da presunti traumi da emotività ferita et similia.

Io in particolare recentemente ho smesso di giocare ad alcuni tipi di giochi di ruolo con i miei due gruppi storici per questo motivo:

“Vorrei sottolineare che non sto parlando solo di ‘essere feriti’: sto parlando di qualsiasi motivo” sottolinea “Concentrarsi sull’aspetto traumatico significa perdere la portata di ciò di cui sto parlando. Non sto dicendo che l’aspetto traumatico sia assente, ma che è solo uno dei tanti aspetti da considerare”. Per esempio, potremmo trovare un qualcosa inappropriato semplicemente perché è volgare, stupido o esagerato, o perché renderebbe la nostra storia ridicola, adolescenziale. “Penso che sia molto sensato mantenere la discussione a livello di estetica, perché, vedete, non stiamo più parlando di regole”.

Non sono d’accordo con Ron sul punto Regole .

O meglio a mio avviso non si è espresso (magari è stato riportato?) non in modo preciso: credo che il concetto debba essere precisato così: gli strumenti di sicurezza sono a tutti gli effetti regole (in tal senso trovo la frase riferita a Ron non corretta) mentre il punto è e dovrebbe rimanere l’Estetica di gioco (in tal senso troverei il punto sostanziale espresso da Ron assolutamente corretto).

Perchè ciò su cui questi strumenti agiscono non è tanto la forma o il modo con cui si raccontano le cose, checché se ne possa dire e per quanto si possa sostenere, anche alla morte, anche differenziando alcuni strumenti più soft rispetto ad altri.

Sono invece strumenti che influiscono a tutti gli effetti sul contenuto della fiction di gioco modellandola in modo più o meno rigido.

Come in un gioco di ruolo sul medioevo storico non si può volare, così se al tavolo c è Jhonny Emo non possono capitare stupri o violenza sui cani.

Non mi sta bene? Non gioco con Johnny Emo.

Non mi sta bene che i miei amici riducano ad azione da film quasi ogni ambientazione?
Non ci gioco.

E non c è strumento che possa risolvere questa roba, nè sessioni 0 nè C.A.T.S. nè dichiarazioni di intenti.

Se non nei limiti in cui una breve chiacchierata e conoscenza reciproca li hanno sempre risolti (in senso positivo o negativo per la continuazione del gioco).

E se gioco con estranei, magari a convention?

Come in ogni attività in gruppi sociali nuovi ci vai piano e con cautela e vedi se va bene.

Onestamente tutto il resto della complicazione e formalizzazione su queste cose che va tanto di moda la trovo personalmente soffocante.

Ma hai già riportato bene tu opinioni simili nel tuo speciale e non c è bisogno di altre precisazioni.

5 apprezzamenti

Volevo aggiungere anche io che secondo me @Bille_Boo ha fatto davvero un’opera straordinaria con questo speciale. Ci sono tante visioni diverse della questione (a mio parere, alcune più valide di altre), ma quello che mi ha stupito è come Lorenzo sia riuscito a bypassare tutti gli slogan e le facili banalità e luoghi comuni che si sentono costantemente su questo tema, andando invece a fondo e scavando nella realtà sfumata e sfaccettata delle esperienze delle persone.

Linko qua anche l’intervento di @Chiaki perché l’ho trovato particolarmente efficace.

6 apprezzamenti