Nella prima stesura di questa risposta avevo provato a seguire la stessa suddivisione in “capitoli” di Ranocchio. Ma più andavo avanti più mi rendevo conto che in realtà le vere questioni sottese, almeno dal mio punto di vista, erano altre, e spesso ogni “capitolo” ne toccava più di una. Mi permetterò quindi di dare un taglio diverso.
Indice
- Le vere questioni secondo me
- Di cosa non parlerò
- Chi sono io per dire questo?
- Ho specificato male il contesto?
- In quel contesto, il metodo che propongo può funzionare?
- Quel metodo è sufficiente?
- Potevo dirlo meglio?
- Tre domande finali
Le vere questioni secondo me
Chi sono io per dire questo?
Quale esperienza ho per parlare dell’argomento? Ho l’evidenza fattuale di quanto affermo? È legittimo chiedermi “le credenziali”, e avete ragione a farlo perché, come vedremo, non le ho.
Ho specificato male il contesto?
Non ho mai pensato che i miei consigli valessero per tutti i GdR in generale. Ma dovevo definire più precisamente a quali giochi e modi di giocare si rivolgono? Sono abituato a leggere molti forum, blog e articoli di “consigli” su D&D (filone nel quale anche i miei scritti si collocano) e ho visto che in genere nessuno si pone granché il problema. Questa discussione mi ha insegnato che invece c’è, almeno presso un certo tipo di lettori, l’esigenza di una precisazione rigorosa del “perimetro” in cui mi colloco. Perché la sua assenza, evidentemente, può essere intesa come la pretesa arrogante (che non ho) di universalizzare i miei consigli, o peggio di negare l’esistenza o la legittimità di chi gioca al di fuori di quel perimetro.
In quel contesto, il metodo che propongo può funzionare?
Nel punto precedente metterò le critiche del tipo “dovevi specificare che vale solo sotto queste assunzioni”, qui le critiche del tipo “comunque, anche sotto quelle assunzioni, non funziona granché”. Sono quelle che mi premono di più.
Quel metodo è sufficiente?
Qui risponderò alle critiche sul fatto che il metodo proposto non garantisca, da solo, un buon gioco, completo, ben fatto (ad esempio senza railroad). Mi sembrava ovvio che non fosse quello il mio scopo nello scrivere, ma a quanto pare c’è l’esigenza anche di questa precisazione. Darò atto quindi di tutto ciò che manca (come il “cosa fai quando non riescono?”) per passare da quel metodo a un gioco soddisfacente.
Potevo dirlo meglio?
L’approccio, il linguaggio e l’impostazione generale sicuramente non sono quelli che avrei usato se avessi scritto un post sul forum e per il forum. Le critiche ricevute, tuttavia, mi fanno venire il dubbio che non siano nemmeno quelli migliori in generale, per esprimere e far capire il concetto. Vediamo se ho imparato la lezione e se riesco adesso a dire le cose in modo più chiaro.
Di cosa non parlerò
Non parlerò del mio blog, se non di sfuggita. Non discuterò di come è impostato e perché, né di qual è il suo scopo e senso. Non risponderò alle critiche ricevute su di esso, alcune molto pesanti e decontestualizzate. Lo ritengo inappropriato e fuori tema. La discussione mi ha portato anche a delle riflessioni personali che lo riguardano, e perciò dico grazie. Ma non siamo qui a parlare di quello.
Inoltre non risponderò a tutte le critiche. Già così ho scritto un muro di testo davvero immenso, che mi imbarazza. Formulare una critica, per quanto ben argomentata come quelle di Ranocchio, richiede molte meno parole di quante non siano richieste per replicarvi a dovere, e io sto già abusando troppo dello spazio che qui mi è concesso. Se c’è qualche critica a cui non troverete risposta ma per cui ritenete particolarmente importante averne una vi chiedo di farmelo sapere.
Chi sono io per dire questo?
Questo è il punto, dei cinque, su cui la critica è più dolorosamente azzeccata. Direi che non sono nessuno.
Faccio il Dungeon Master da circa vent’anni. Attualmente, nei miei giochi, uso un regolamento che è un mostro mutante, un tale coacervo di home rules accumulate nel tempo da essere ormai irriconoscibile come una specifica edizione di D&D. Nel passato come master ho usato quasi solo D&D 3.5. Come giocatore ho giocato ad AD&D 2e, a D&D 3.5 e (poco) a D&D 5e e Pathfinder 1. Mi è anche capitato di giocare a qualche PbtA (Masks mi è piaciuto molto), a Di Cosa Hai Paura (un’implementazione del GUMSHOE) e a qualche gioco indipendente di cui non ricordo nemmeno i dettagli, più una singola partita a Fiasco, che ha tenuto fede al suo nome.
È giusto, quindi, farmi notare che la mia esperienza personale come DM è ultra-limitata e ristretta, troppo per poter parlare con sicurezza di edizioni vecchie e nuove, moderne e OSR.
Oltretutto di recente, tra la pandemia e il resto, le mie ore di gioco reale si sono assottigliate decisamente. Forse è per questo che mi sono allargato troppo nei miei ultimi articoli, visto che, parafrasando Dé André, “la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio”. Di solito i metodi e gli strumenti di cui scrivo sono validati da un ampio utilizzo sul campo, ma in questo caso dell’investigazione ho fatto il passo più lungo della gamba. Come ho ammesso nel commento precedente, è teoria che non è mai stata messa, nella sua interezza, alla prova dei fatti. Quindi mi avete colto in castagna.
Ho indubbiamente peccato di superbia e me ne scuso.
Ho specificato male il contesto?
Questa critica credo sia abbastanza giusta: non ho delineato in modo chiaro ed esplicito qual era il perimetro degli articoli, sia nell’ambito di giochi e modi di giocare a cui si rivolgevano, sia nell’ambito di ciò che contenevano e ciò che non pretendevano di contenere (di quest’ultima cosa parlerò sotto, al punto “quel metodo è sufficiente?”). A mia discolpa posso dire che, se non l’ho fatto, è perché molto di quel perimetro mi pareva sottinteso, e non perché volessi far credere che non esiste, o considerassi non valide le esperienze di gioco che si trovano al di fuori di esso.
Quali giochi
Il contesto del blog è D&D in senso lato (le varie edizioni di D&D, Patfinder, retrocloni e affini). Questo è specificato nell’introduzione. D’altronde mi rivolgo ai DM e non a “qualunque appassionato di GdR”.
Ho ricevuto una critica anche su questo punto e la accetto. È vero, tra tutti i giochi che ho messo in quell’insieme ci sono grandi differenze. In realtà c’è spesso ancora più differenza, nella mia esperienza, tra un tavolo di D&D e l’altro, anche nella stessa edizione, visto che non mi è mai capitato di vedere un gruppo che non rimaneggiasse le regole in misura più o meno significativa.
Se credo che si possa parlare di D&D in senso lato non è per negare queste differenze, o insinuare che il sistema non conti (conta eccome). È perché percepisco (forse illudendomi) una “matrice” di fondo che accomuna tutte le edizioni e tutti i tavoli, un minimo sindacale di base comune: di intenti, di concetti, di linguaggio, e di altre cose per cui non voglio usare a sproposito parole di cui sareste pronti a bacchettare l’uso inappropriato. È a quel retroterra comune che mi rivolgo quando propongo strumenti e consigli (perché di questo si tratta: non lezioni o sentenze, né tantomeno regole, come vedremo sotto). Confido che un DM sarà in grado di prendere il buono (per lui) di quegli strumenti e adattarlo al proprio gioco, come tutti quelli che conosco già fanno, in ogni caso, con la maggior parte della roba, soprattutto se homebrew.
Sono sempre stato convinto che nessuno dei giochi che ho elencato sia inadatto di per sé a quello che dico. Ma mi avete fatto venire il dubbio, quindi sono pronto ad essere smentito.
Mentre conta molto, avete ragione, il modo di usarli: un punto che avevo colpevolmente sottovalutato e di cui vado a parlare adesso.
Quali modi di giocare
Senza dubbio l’impostazione di gioco che uso e per cui valgono i miei consigli si basa sull’assunto che lo scopo “operativo” dei giocatori sia far raggiungere al proprio PG il suo obiettivo (del PG). Non è necessariamente la stessa cosa, secondo me, che avere il personaggio come mero avatar del giocatore, ma può darsi che diamo un significato diverso alla parola avatar, e non voglio incartarmi di nuovo sulla terminologia.
Mi spiego meglio. Riconosco, e non ho mai messo in dubbio, che ci possano essere tanti motivi per cui un giocatore vuole giocare e per cui trae gratificazione dal gioco; potrebbero benissimo essere più importanti del piacere di “vincere”, cioè di raggiungere l’obiettivo del PG. Ma, visto che il compito del giocatore (in quei giochi) è prendere le decisioni per il suo PG, nell’atto di prendere tali decisioni mi aspetto che cerchi di fargli raggiungere il suo obiettivo (suo = del PG), o perlomeno che ne tenga conto e non vada nettamente o sistematicamente in direzione diversa.
Non è scontato e dovevo precisarlo, tantopiù che è un assunto fondamentale di molti altri articoli. È stata una grave mancanza da parte mia.
Analogamente, parlo di giochi in cui l’autorità narrativa (si dirà così? beh, se sto usando male il termine mi correggerete) del giocatore si espleta solo in quello, nel prendere decisioni per il PG, a parte la sua costruzione iniziale. Questo mi sembrava scontato in quanto tratto caratteristico dei giochi a cui mi rivolgo e che ho elencato sopra. Ma se mi sbaglio e ritenete necessario precisare anche questo in modo esplicito, ditemelo: sono pronto a ricredermi.
Spero che sia chiaro adesso perché, in questo contesto, uso proprio quella definizione di agency. La definizione di Ranocchio è bella, generalissima ed espressiva, ma del tutto inadatta ai miei scopi (non ho spazio qui per agomentare, se qualcuno vuole approfondire possiamo farlo in un altro thread).
Assunzioni specifiche
Oltre a queste assunzioni generali riguardo al gioco e al modo di giocare, ce ne sono altre che sono specifiche di questa trattazione. Onestamente, qui mi illudevo di averle ben definite tutte. E pensavo che fosse chiaro che le definivo proprio per delineare il perimetro di validità del mio metodo, e non per dare ad intendere che al di fuori di esso ci fosse un gioco errato o indegno di rispetto. Si vede che, pure qui, mi sono sbagliato.
Ho definito sin dall’inizio cosa intendevo per investigazione sia per evitare che qualcuno che dava (legittimamente) un significato diverso a quella parola capisse fischi per fiaschi, sia per esplicitare, appunto, di cosa volevo parlare e di conseguenza di cosa non volevo parlare. Perciò sì, la definizione secondo me è utile, anzi, indispensabile.
(Quanto alle altre definizioni, sono solo una manciata di “shortcut” per evitare, nel seguito, di ripetere ogni volta un giro di parole: mi riferisco a Risposta, Fonte, Informazione-Freccia e Informazione-Tessera. Lasciamo stare i nickname culinari dell’ultimo episodio, per favore: quelli stanno lì per divertimento, non sono definizioni ma una boutade; non confondiamoci. E di sicuro non ho mai avuto la pretesa che questa terminologia venisse usata da altri.)
Sempre per la stessa ragione ho indicato espressamente, nel primo articolo, i due assi portanti del metodo che andavo a delineare:
- il fatto che le informazioni siano reperite tramite il PG, attraverso un processo che dipende dalle loro scelte ma non dal caso;
- e il fatto che sia, invece, la testa del giocatore a ragionarci sopra per trarne deduzioni.
So bene che non è scontato che sia così, e proprio per questo l’ho esplicitato!
Chi non condivide queste assunzioni specifiche non userà il mio metodo. Mi sta bene, non è che per questo vi toglierei il saluto o penserei che quello che fate non sia gioco di ruolo (mi ferisce un po’ che Ranocchio sembri supporre, in più punti, che lo penserei).
Sto cambiando le regole?
Anche su questo punto avevo scritto una pagina di roba e l’ho dovuta tagliare. Mi limiterò a dire che no, non percepisco le regole come qualcosa che soltanto i giocatori usano. Esistono senz’altro regole anche per il DM ed è giusto che il DM le rispetti. Ma nella mia visione (poi correggetemi se questo è l’ennesimo sbaglio) una regola è qualcosa che violare è sbagliato: se la violi stai barando.
Fatico a mettere su un simile piano un consiglio procedurale su come impostare la progettazione di uno scenario. Anche quando il DM decide, liberamente, di seguirlo. Altrimenti ogni volta che uno usa una delle tante guide del tipo “come creare un ottimo dungeon”, anche solo per trarne ispirazione, starebbe stravolgendo le regole del gioco. Di più, lo starebbe facendo anche ogni volta che gli viene un’idea personale per farlo. Mi sembrerebbe un po’ forzato.
A meno che non vi riferiate solo alla raccomandazione di non far tirare i dadi per trovare gli indizi. Che io sappia (ma smentitemi se sbaglio) il DM ha sempre la facoltà, di fatto, di non richiedere l’uso dei dadi per un’azione se ritiene che l’esito non sia incerto, a meno che non sia una situazione in cui le regole in sé lo richiedono esplicitamente. La mia raccomandazione andava intesa, evidentemente, come un “non mettere gli indizi in situazioni simili”, non come “metticeli lo stesso e ignora il tiro di dado che le regole prescrivono”. Di nuovo, è equivalente a: “non mettere le monete d’oro in una cassaforte o dietro una trappola, mettile semplicemente sul pavimento del dungeon”. Niente prescrive al DM di non farlo. Quindi faccio fatica a vederlo come un cambio di regole. Certo, è un’assunzione specifica e non scontata, ma questo l’ho già detto sopra.
In quel contesto, il metodo che propongo può funzionare?
Come ormai dovrebbe essere chiaro, lo scopo del metodo è distribuire informazioni in uno scenario e assicurarsi, con ragionevole approssimazione, che siano potenzialmente sufficienti per compiere l’investigazione così come l’ho definita, con le assunzioni sopra dette.
Il grafico
È un flowchart? È un dependency chart? Sono rimasto spiazzato visto che non conoscevo la differenza, almeno, non così formalizzata. Ho letto il bellissimo e utilissimo articolo che Ranocchio ha linkato. Provo a dire con parole mie quello che ho capito in materia, e mi scuso se dirò l’ennesima sequela di cavolate.
Se con flowchart si intende un grafo in cui le frecce, le relazioni tra i blocchi, rappresentano un rapporto di tipo squenziale o spazio-temporale, mentre con dependency chart uno in cui rappresentano un rapporto di necessità (cioè, che ciò che sta a monte della freccia è un requisito oggettivo per ciò che sta a valle), allora quello che ho proposto di usare è un dependency chart. Almeno, era inteso come tale, e tuttora mi sembra che lo sia.
Nel mio grafo c’è una freccia da A a B solo se A è un pre-requisito necessario per B, proprio come negli esempi di Gilbert. Tra l’altro avevo già usato questo tipo di convenzione (con inconsapevole ignoranza) anche in un’altra serie di articoli, e proprio aggiungendo questa precisazione. L’unica differenza che vedo tra il mio grafo e quelli di Gilbert è che nel suo caso, se più frecce convergono su un blocco, è sottinteso un AND, cioè tutti i blocchi a monte di quelle frecce sono requisiti necessari per fare ciò che sta a valle; mentre mio caso è sottinteso un OR, cioè è sufficiente uno dei blocchi a monte come requisito (mentre per gli AND ho inserito una notazione ad hoc con un segno +). È una differenza solo di notazione, non di sostanza, almeno così mi sembra.
Il mio grafo non cerca di prevedere cosa faranno i PG, né di costringerli a farlo. Sono costernato che dia questa impressione: devo essermi spiegato davvero malissimo. Il grafo si limita a indicare le relazioni tra le informazioni proprio in termini di requisiti.
Capisco però, e accetto perché è giustissima, la critica sulla direzione di sviluppo: sarebbe sempre meglio partire dal fondo (dal blocco finale, dalla “Risposta”) e procedere a ritroso, piuttosto che il contrario. È un principio validissimo che avevo già affermato in altri articoli (uno, tra l’altro, proprio su un’investigazione e partente da un caso concreto… è il primo link nella sezione “per approfondire” del primo articolo della serie, se vi interessa), e avrei dovuto ribadirlo anche qui.
Il motivo (ma non è una scusa sufficiente, lo so) per cui sono partito “dalla cima” è che ho usato come esempio una traccia di investigazione che mi è stata data da un’altra persona, per sue esigenze, e quella traccia conteneva molti più dettagli sul punto di partenza che non sul punto di arrivo. Avrei potuto procedere a ritroso, ma avrei rischiato di non giungere allo stesso punto di partenza, e quindi di dare a quella persona una risposta buona ma inutile. Tuttavia forse per il lettore sarebbe stato più istruttivo. E sarebbe stato giusto, quantomeno, dire esplicitamente perché stavo andando in quella direzione e perché sarebbe stato più efficace andare in quella opposta.
Questo è indubbiamente un mio errore, di cui mi pento e a cui cercherò di rimediare.
Il ruolo dei giocatori
Non capisco in che senso Ranocchio dica questo, e mi perdonerà quest’unica volta che uso quote:
Come ho detto sopra, non ho spazio qui per coprire la questione agency, se volete ne discutiamo in un thread separato. Ma non capisco come si possa dire che il giocatore può trovare informazioni e ragionare, ma non contribuire per niente. Starò di nuovo, per l’ennesima volta, dando per scontato qualcosa che invece non lo è, ma per me è ovvio che il suo contributo (nei giochi e nei modi di giocare di cui stiamo parlando eccetera eccetera, vedi sopra) il giocatore lo dà decidendo che cosa fare con le informazioni che recupera. E su quello non c’è niente di predeterminato. Né vedo quali esiti avrei scelto in anticipo.
Nell’esempio c’è una succube che spia e uccide sotto mentite spoglie. Il DM inserisce nel gioco quella succube e una serie di informazioni che possono portare i PG a scoprirla; l’esistenza di queste cose (la succube, gli indizi) ovviamente non dipende dalle scelte dei giocatori, ma questo non vuol dire che le loro scelte non contino nulla. Le loro scelte possono portarli a non riuscire a scoprirla, o a non riuscirci in tempo: come, nell’esempio del dungeon di Davos, i PG potrebbero non riuscire a risolvere il puzzle per salvare la principessa, in tal caso la principessa muore. Beh, quello è un fallimento, un’eventualità sempre possibile in D&D, ma non mi sembra railroad. Oppure i PG potrebbero scoprire la succube, e lì decideranno che cosa fare: se affrontarla e come, oppure se parlarci, se scappare, se passare dalla sua parte.
Le uniche cose predeterminate sono l’esistenza della succube e degli indizi, così come in un dungen tradizionale è predeterminato (a meno che non sia tutto casuale) il contenuto delle stanze: mostri, trappole, tesori eccetera. Le scelte e la libertà di azione dei giocatori si espletano nel come fanno interagire i PG con questo scenario. E, ovviamente, nella scelta che c’è a monte (ed è sottintesa) che è quella di interagirci tout court: potrebbero non entrare nel dungeon e tirare dritto, potrebbero non voler indagare sul mistero e fregarsene. Anche quella è agentività. È ok, è normale amministrazione per un DM, al punto che non sentivo nemmeno il bisogno di precisarlo.
@ranocchio, ritieni forse indispensabile, perché non ci sia railroad, che gli indizi stessi e l’identità stessa del colpevole vengano generati dalle scelte dei giocatori e non abbiano un’esistenza oggettiva a priori? Aiutami a capire questo punto perché per me è molto importante.
Quel metodo è sufficiente?
Credo che diverse critiche che mi sono giunte derivino dal voler vedere nei miei scritti qualcosa che semplicemente non ne fa parte. Vale, in particolare, per questo punto. Ma mi assumerò la responsabilità anche di questo: diciamo pure che non sono stato chiaro e che avrei dovuto aggiungere altre precisazioni ancora; proverò a farlo adesso.
Intanto, quello di cui parlo è come progettare la cosa (il mistero su cui indagare), non come gestirla al tavolo durante le sessioni.
In secondo luogo, quello di cui parlo è uno specifico elemento del gioco (di nuovo, il mistero su cui indagare), non il gioco nella sua interezza. Ho l’impressione che molti di voi lo abbiano inteso come la seconda cosa. Chiedo scusa per l’equivoco.
A mio modo di vedere chi progetta un elemento homebrew del gioco, o dà consigli su come progettarlo, non è automaticamente tenuto a offrire un nuovo gioco come pacchetto completo, autonomo e autocontenuto.
Pensiamo ai tanti articoli che esistono, in giro, su come progettare un bel dungeon. A me non verrebbe mai in mente di criticarli con osservazioni come: ok, ma che succede se i PG scappano dal dungeon a gambe levate? E se abbattono i muri? E se muoiono tutti? E se non trovano la chiave per l’ultima porta e non recuperano l’artefatto? Naturalmente sono tutte cose che devono avere, nel gioco, conseguenze appropriate, ma dipendono non tanto dal dungeon in sé quanto dal framework, dal contesto in cui il dungeon si inserisce. Perché i PG si sono recati lì? A quali condizioni? Qual era la posta in gioco? Cosa c’è fuori dal dungeon? Le risposte a queste domande sono importanti e ogni DM dovrebbe saperlo, ma non penso che ci sia la necessità di ribadirlo ogni volta che si parla di dungeon.
Anche la gestione del gioco al tavolo, compresi gli imprevisti, le decisioni inaspettate dei PG, è una cosa fondamentale che può fare la differenza in una giocata. Mi è capitato di trattarla, e sarebbe interessante per me discuterne con voi. Semplicemente, non era il tema di questi articoli.
Quindi, certo che questo metodo non assicura, di per sé, che non ci sia railroad duro (benché non lo implichi); certo che potrebbero esserci imprevisti, che il DM dovrà gestire; certo che i giocatori potrebbero non trovare la soluzione (mi è accaduto, in passato, eccome!), e il DM dovrà gestire anche questa eventualità. Il fatto che questi articoli non pretendano di coprire anche questi temi non vuol dire che io non li reputi importanti: ne ho già scritto altrove e tornerò a scriverne.
Potevo dirlo meglio?
Sicuramente, e adesso ci provo.
Cari amici, fatte tutte le doverose premesse (su gioco, modo di giocare, assunzioni, insomma vedi sopra), quello che vado a presentarvi è un metodo per progettare un dungeon, con tutti i pregi e i difetti dei dungeon. Solo, un po’ atipico.
Il tesoro contenuto nelle stanze non consiste in sfavillanti monete, ma in chiavi per accedere ad altre stanze, e in frammenti di un puzzle da ricomporre.
E le stanze non sono vere stanze di un complesso sotterraneo. Non necessariamente, almeno. Potrebbero essere luoghi, ad esempio in una città.
Quello che ho chiamato puzzle, inoltre, non è fatto di tasselli che si abbinano con gli occhi e con le mani, in base alla loro forma: è fatto di informazioni che i giocatori debbono associare nel loro cervello, con la logica e l’intuito (non certo a livelli stratrosferici, intendiamoci).
Ricomporre il puzzle permetterà di rivelare un’informazione su qualcosa che esiste già, oggettivamente, nel mondo di gioco e che per i PG è importante. Starà a loro, poi, decidere come comportarsi una volta che l’avranno appresa.
Me la sono cavata in modo accettabile, questa volta?
Tre domande finali.
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Ritenete che questo consiglio, con queste considerazioni e riformulato in questo modo, sia intrinsecamente inadatto a una o più specifiche edizioni di D&D o Pathfinder, a prescindere da come viene usata? Se sì, quali?
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Ritenete che questo consiglio, con queste considerazioni e riformulato in questo modo, sia intrinsecamente railroad puro, o comunque che sia da bocciare in toto? Se sì, perché, e quale parte dovrei eliminare perché non lo fosse più?
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Conoscete, o riuscite a ideare, un metodo più efficace e funzionale per soddisfare lo scopo che mi sono prefisso, fatte queste stesse premesse? Se sì, quale? Mi interesserebbe molto!