Hola, visto che si tratta direttamente di una mia talk (con varie supposizioni sulla mia persona) mi ssembra il caso di rispondere direttamente.
Partirei dalle cose meno importanti, ma forse più utili a chiarire il contesto in cui la talk è stata fatta e da chi è stata fatta.
Nell’ordine, dici di non voler parlare della mia persona, ma sottointendi che non ho studiato la materia in primis, per concludere con due conclusioni mutualmente esclusive: ovvero che a tuo dire “sono ignorante, poiché ignoro la cosa/non l’ho studiata” o che “voglio spettacolarizzare un argomento, per fare uno show”. Partirei dal primo dei due punti: ho studiato la materia? Una veloce occhiata alla mia bio, sparsa in giro o reperibile anche sul mio portfolio può confermare che non solo l’ho studiata, ma ho lavoro nel settore da anni. Per contesto (poiché non ho particolare interesse a fare a gara a chi ce l’ha più lungo), ho conseguito un Master of Science in Game Design & Theory alla ITU di Copenhagen (con tesi di master nello specifico sul gioco di ruolo, la puoi reperire qui: The Presence of the Designer in Two-player Role-playing Games - Google Docs), dove in seguito ho anche insegnato game design nello stesso corso, assistendo Miguel Sicart: figura che, non lo nego, ha influenzato parte del mio paradigma e che notoriamente si era schierato contro l’uso diffuso del termine “fun” in inglese.
Qui arriviamo al primo punto che trovo problematico nella tua analisi, ovvero che a tuo dire in inglese il termine non ha la stessa valenza dell’italiano. Cosa vera eh, ma non è nemmeno inteso nel modo in cui lo hai riportato tu. Al punto che sia nella scena brittannica che in quella scandinava sono spuntati nel discorso ludico termini come “type-2 fun” e “alternative fun” per parlare di giochi su temi delicati, intimi, difficili da digerire. “Type-2” fun nello specifico si è originato persino al di fuori dell’ambito ludico accademico, quindi non è figlio di qualche dottorando che ha battuto la testa.
Forse qui il “problema” all’origine dell’incomprensione è che le tue fonti e il tuo cerchio di discussione è prettamente americano? Le fonti che hai scritto le ho lette e sono, di fatto, un’espressione americana sul tema. Non sono, tuttavia, le uniche. anche solo in scandinavia abbiamo designer e accademici come Markus Montola e Jaakko Stenros (Jaakko nello specifico ha una quantità e qualità di materiale scritto sul tema ludico capace di far impallidire chiunque) ed entrambi hanno parlato più volte del problema del termine “fun”. Occhio che qui se vogliamo fare i precisini si potrebbe quasi dire che sia tu a fare disinformazione sul tema, portando solo il punto di vista americano sul discorso, ignorando tutta la branca europea che passa da Sicart, Juul, Montola, e Stenros.
A tal proposito, ti sei chiesto qual è il contesto della talk? Capisco che su YouTube sia tutto un “eterno presente globale” in termini di contenuti, ma una rapida letta alla descrizione YouTube del video rivela subito che la talk è stata tenuta allo Knudepunkt 2019. Cos’è lo Knutepunk? La più grossa conferenza scandinava sul tema dei giochi di ruolo dal vivo, in particolare focalizzata sul classico nordic style che, guardacaso, è proprio la conferenza principale per parlare di “type-2 fun” et simili. La talk era all’interno di un programma preciso, messa su YouTube poi a scopo di archiviazione e ci sta che sia stata vista e diffusa senza contesto. Nel suo contesto però la talk mi sento di dire che era estremamente correlata al discorso corrente, al punto che nel pubblico c’era anche il sopracitato Jaakko Stenros, che non solo ha concordato con la talk, ma mi ha fatto presente che non era la prima e non sarà l’ultima sull’argomento, visto che è un tema particolarmente ostico da normalizzare.
Trovo anche problematico che tu faccia passare il mio riferimento all’MDA per “fare un po’ di show”, visto che dall’MDA stesso è spuntata l’iterazione seguente con il nome di DPE anche in vista di alcune criticità proprio con l’area “fun” dell’MDA la fa proprio sparire dal DPE Framework. Non capisco inoltre l’inciso tra parentesi sul fatto che “è uno strumento di analisi dei giochi”. Uno dei punti della mia talk è che fun è un termine talmente radicato che nel settore accademico e lavorativo continua ad essere usato in modo sommario. L’MDA (che resta uno strumento da conoscere, imho) ha quella criticità, a mio avviso.
Prima di passare alla parte delle conclusioni/soluzioni, faccio un’ultimo appunto sulla questione di In-Game: mi pare che tu “sminuisca” il punto perché quel libro nello specifico è stato scritto trattando di videogiochi e di VR, ma i contenuti sono assolutamente crossmediali, a mio avviso, e il parallelismo non solo non è azzardato, ma lo trovo personalmente estremamente utile. Non parlerei di disinformazione qui, a meno che tu non ritenga un’approccio crossmediale al game design un’atto di disinformazione, nel qual caso c’è un problema più grosso nel discorso tra noi due.
Ma parliamo di conclusioni e soluzioni. Lì nello specifico (visto anche il contesto della talk e il pubblico) il discorso si è spostato se vogliamo sul lato più “di settore”, visto che stavo parlando con altri designer e accademici. Sono rimasto sul tecnico perché tutti in quella stanza avevano per buona parte le stesse basi. Secondo te sto seriamente sostendendo che in via informale tra un gruppo di amici bisogna parlare delle 6 aree di coinvolgimento anziché di immersione? Nel senso, probabilmente mi sono spiegato male, ma mi pareva scontato che fossero soluzioni principalmente . Io lavorando trovo utile quando progetto pensare alle 6 aree, credo che anche altri possano trovarle più utile di usare come drive “voglio un gioco immersivo”. Puoi non concordare, ma onestamente ti sembra corretto parlare di “disinformazione”?
Riguardo a “fun” il problema imho è più grosso, non sto dicendo che le mie soluzioni sono le migliori (al punto che nella talk cito anche l’approccio di Sarah Lynne Bowman, persona stupenda nonostante non abbia il mio approccio sulla questione). Lì l’intento è, se vogliamo, duplice:
- Spingere i game designer a pensare un passo oltre il “devo avere un gioco divertente”, spostando il drive sulle emozioni che si vogliono triggerare al giocatore (culturalmente positive o negative che siano).
- Il secondo, più importante, è creare un clima di discussione in cui determinati giochi non vengano discriminati o segregati solo perché non rientrano nell’uso più comune di “divertimento”. Questa cosa succede. Io l’ho vista succedere su giochi che ho pubblicato io stesso, su giochi pubblicati da altri, e soprattutto l’ho vista succedere in modo crossmediale, dal videogame al boardgame, e ovviamente anche sul gioco di ruolo. Il videogame se vogliamo è quello più “maturo” nel senso che titoli come “Spec Ops: The Line”, “Gone Home”, “Papers, Please” (e molti altri) sono riusciti a subentrare un pelo nel “mainstream” (tra molte virgolette). Nel boardgame stiam vedendo i primi segnali, con cose come This War of Mine (il boardgame, che sicuramente sfrutta la normalizzazione sul che il videogioco ha guadagnato) e Holding On: the Troubled Life of Billy Kerr. Nel gioco di ruolo purtroppo siamo ancora in uno stadio di rifiuto e segregazione, purtroppo, in cui della comunità fatica a riconoscere la legittimità di giochi di ruolo che non siano EUMATE o che non abbiano buona parte dei default tradizionali (un master, dei dadi, una campagna, etc).
Spero di essermi chiarito sia come persona che di aver chiarito il contesto e le fonti della talk. Ammetto ho trovato molto poco “intellettualmente oneste” sia le supposizioni di partenza su di me, sia le conclusioni (di fatto dicendo “o questo non sa un cazzo, oppure vuole mettersi in mostra con uno show”). Il tutto con un tono da “io ho studiato, questo non sa un cazzo”.